Dibattito sul futuro del Pri/Alla fine quanto sono liberaldemocratici il Pd e il Pdl?

Riflettere, come sempre, nell'interesse del Paese

di Guglielmo Castagnetti

Mi auguro che saranno molte le voci di repubblicani che vorranno accogliere l'invito del Segretario a pronunciarsi sul futuro del partito e sulle modalità e caratteristiche della sua partecipazione alla vita politica del Paese.

Per cercare di dare correttamente risposte argomentate al quesito del "Che fare?", credo si debba partire dalla analisi della situazione attuale, dai problemi e dalle necessità che ci assillano, e verificare se e come il partito possa rappresentare una risposta efficace, specifica, necessaria e non surrogabile da altre formazioni politiche.

Il funzionamento delle istituzioni, la laicità dello Stato, la politica estera e il rafforzamento dei diritti civili sono temi essenziali per definire garanzie di libertà, di sicurezza e di progresso. Ritengo che su questi problemi la scuola liberal-democratica e la politica che ne consegue siano le più vicine alla sensibilità, alla storia e alla vocazione dei repubblicani. Domandiamoci, allora: il PD e il costituendo PDL sono partiti liberal-democratici? Consentono di sperare che potranno diventarlo?

La prassi delle adunate oceaniche, oggi al Circo Massimo, ieri a San Giovanni, che accomuna i due schieramenti e che li porta, ogni qualvolta sono all'opposizione, a fare appello alla piazza, non sembra il modo più corretto di interpretare una democrazia parlamentare. E questo avviene non solo a sinistra, come residuo ancestrale di un passato movimentista e antisistema, ma anche fra i cosiddetti moderati che, nei due anni della passata legislatura, si sono prodigati ad adunare folle, ad organizzare cortei e a raccogliere firme, non solo per far cadere il Governo, come se il Parlamento non esistesse, ma persino per chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento delle Camere, quasi che l'art.88 della Costituzione sia un optional o un ingombrante orpello.

C'è una visione corretta delle istituzioni in coloro che hanno ridotto progressivamente funzioni, importanza e prestigio del Parlamento fino a trasformarlo da qualificata assemblea rappresentativa della sovranità popolare ad una sorta di riepilogo del catalogo di Leporello? E che dire dei partiti riconosciuti dalla Costituzione come essenziali al funzionamento della democrazia? Non solo per i repubblicani, che per primi ne fondarono uno e sanno bene di che cosa si tratti, ma per tutti i liberal-democratici, i partiti non si sciolgono e non si fondano arringando una folla, magari da un predellino d'auto, e neppure si creano a freddo, in laboratorio, mettendo d'accordo dirigenti sfiatati di partiti in declino e chiamando a far la fila, per primarie fasulle, iscritti, funzionari, banchieri e quadri sindacali.

Si potrà obiettare che già nel passato i repubblicani hanno dovuto adattarsi all'egemonia di culture e politiche diverse, in nome dell'interesse superiore del Paese o anche soltanto come scelta del male minore. Ma non è mai accaduto, neppure nei momenti più bui dell'egemonia democristiana, o nelle ambiguità della solidarietà nazionale, che un Presidente del Consiglio bollasse come "provocazioni" i piani di difesa NATO in Europa.

C'è infine la vecchia e mai risolta questione della laicità dello Stato. Una battaglia che i laici hanno dovuto combattere sempre da posizioni di minoranza, che ha riservato loro molte amarezze, ma che non li aveva mai visti così umiliati come si sta verificando in questa seconda repubblica, con leggi scritte sotto dettatura della CEI e con 30.000 insegnanti di ruolo (i soli che non sono stati penalizzati dai tagli della finanziaria) pagati dallo Stato e scelti dal Vescovo per l'insegnamento della religione cattolica. Per non parlare di quanto si sta verificando in Lombardia, con un Governatore che, in ossequio alle sue convinzioni religiose, definisce aberrante una sentenza della Cassazione e, quel che è peggio, rifiuta di darle attuazione nell'ambito delle strutture del sistema sanitario della sua regione.

Una risposta al "Che fare?" è quindi possibile alla luce delle condizioni nelle quali versa il Paese. Problemi gravi che sono oggetto di puntuale e ferma sottolineatura da parte del Capo dello Stato e che necessitano di rimedi che solo la cultura liberal-democratica può fornire. Le speranze per un futuro migliore sono legate al successo di programmi e di politiche di ispirazione liberal-democratica. Né il PD né il nascente PDL fanno sperare di imboccare quella strada.

Più che valutare se è utile che i repubblicani conservino e potenzino la loro presenza autonoma in politica, occorre prendere atto che questo è necessario, ancorché difficile e forse temerario. Non si tratta dunque di cedere al sentimento, alla nostalgia o a un semplice spirito di appartenenza. Si tratta di fare la scelta che il pragmatismo e la ragione impongono e che hanno sempre guidato i repubblicani nella loro storia ultra secolare: non esitare nell'offrire alla libertà e al progresso del Paese tutte le proprie energie.